di Valentina Evangelista
Shirley Jackson è stata una grande scrittrice a lungo dimenticata. Come accade a certi strani e poco confortevoli luoghi sui quali non si ha il coraggio di tornare neppure a posare lo sguardo. Un fiore storto cresciuto nella crepa più impensata. Impossibile da cogliere, difficile da capire, capace di stregare. Quest’ultima espressione potrebbe apparire inflazionata e banale. Tuttavia è così che in parecchi ancora la definiscono, strega del Vermont. Immagino per via del suo dono quasi magico di piegare la realtà in qualcosa che turba e disorienta, il cauto orrore.
Il racconto più celebre di Shirley Jackson, La lotteria, ricorda, per la fama che lo avvolge, la lettura radiofonica, trasmessa dall’emittente CBS, della Guerra dei Mondi di Orson Welles. La sua pubblicazione sulla rivista letteraria The New Yorker, nel 1949, scatenò un pandemonio. In moltissimi presero alla lettera La lotteria, non ritenendola un’opera narrativa, ma un racconto veritiero, tanto che la redazione fu sommersa di lettere traboccanti sgomento e indignazione.


La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate, i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci. In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni e bisognava iniziarla il 26 giugno, ma in questo paese di sole trecento anime all’incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire in tempo perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno.
I primi ad arrivare furono naturalmente i bambini.
Le ultime otto parole, chirurgicamente ghigliottinate da un punto, forniscono un’idea precisa sul cauto orrore che la scrittura di Shirley Jackson è capace di generare.
La lotteria affronta non l’unica, ma certamente una delle sue più potenti tematiche, quella della violenza insopprimibile e casuale che necessita di essere esorcizzata. Ricondotta in una forma il più possibile accettabile. Ruth Franklin, biografa di Shirley Jackson, in A Rather Haunted Life, pubblicato nel 2016, scrive in proposito:
I lettori di Jackson rimasero tanto sconvolti da La lotteria perché ci videro dentro un orribile riflesso delle proprie facce, anche se non si resero conto esattamente di cosa stessero guardando.
Shirley Jackson e Stephen King. Urania e Adelphi
La grande attenzione di cui Shirley Jackson gode da qualche anno nel nostro Paese, la sua potente riscoperta postuma, è merito, in primo luogo, di un eloquente pensiero che Stephen King ci sussurra dal romanzo L’incendiaria. È in questo modo che io stessa l’ho conosciuta.
In ricordo di Shirley Jackson che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.
Il Re dell’horror riassume la grandezza di una delle sue maggiori ispiratrici e maestre, in una manciata di parole. La vera Regina, e non solo di questo genere letterario, è proprio lei. Utilizzò le parole con tale maestria da renderne necessarie poche, e sommesse, per centrare in modo perfetto l’obiettivo. Insieme a King, moltissimi autori dell’horror e del fantastico guardano a Shirley Jackson come a un magistrale e ineguagliabile modello.



Il resto è merito dell’operazione editoriale di Adelphi che ha inizio con tre delle opere migliori della scrittrice statunitense: L’incubo di Hill House (2004), la raccolta di racconti La lotteria (2007) e Abbiamo sempre vissuto nel castello (2009). Di qualche anno dopo sono le traduzioni di Lizzie (2014) e delle raccolte di racconti Paranoia (2018), La ragazza scomparsa (2019) e La luna di miele di Mrs. Smith, del romanzo La meridiana (2021) e di un’altra raccolta di racconti, Un giorno come un altro (2021).
In ognuno di questi, ma in particolare nella sfera complessa e condensata dei racconti, Jackson gioca con estrema abilità con una tensione che non si allenta mai, ma neppure si spezza. Ci pone su di un filo sottile che produce vertigini senza lasciarci precipitare nel vuoto.
Una sfera di perfetta tensione. Shirley Jackson fuori dai generi
Se la magia ha davvero molto a che fare con Shirley Jackson, risulta, tuttavia, una lente insufficiente a inquadrare una scrittura che sfugge alle categorie e persino a un’interpretazione razionale.
Ritenuta a lungo un’autrice horror (prima dell’avvento di Adelphi, che la consacra in un classico, era già stata tradotta e pubblicata da Urania nel 1979, con La casa degli invasati, adattato poi in L’incubo di Hill House), Shirley Jackson è lontana anni luce dall’essere solo questo. Anche la categoria del nuovo gotico le va decisamente stretta. Il genere weird, in cui ricadono le opere in cui l’elemento estraneo che ci attrae e ci terrorizza non è in alcun modo conoscibile o spiegabile. È forse, il “contenitore” che le rende più giustizia, sebbene Jackson si confermi, e in ciò risiede parte della sua grandezza, una scrittrice inclassificabile e capace di non ripetersi mai.
Magia e aglio nella narrativa. La stranezza di Shirley Jackson
L’interesse di Shirley Jackson per il soprannaturale, per la magia e per la stregoneria appare come una presenza costante e tutt’altro che teorica nella sua esistenza. L’aspetto più interessante è che il suo stesso rapporto con la scrittura fosse di tipo magico. Scrivere, per lei, rappresenta un modo per tenere a bada la realtà, per abbandonarsi liberamente alla stranezza.
La cosa più bella dell’essere una scrittrice è che puoi permetterti di abbandonarti alla stranezza quando vuoi (L’aglio nella narrativa in Paranoia)
L’ambiente che Shirley Jackson ci propone nelle sue opere appare convenzionale, tipico, persino ordinario. Ma quello che, quasi a tradimento, ci versa sopra non lo è affatto. I suoi ambigui e sfaccettati personaggi femminili non si sintonizzano con il resto e le sue case si incarnano in strane e temibili interferenze. Il panorama che, sulle prime, si presenta ai nostri occhi come del tutto anonimo, di colpo s’increspa in qualcosa di inatteso. Diventa precario e instabile, non aderisce e nemmeno più si accorda al reale, ormai stravolto, ribaltato, trasformato.
Shirley Jackson e le sue case
In Shirley Jackson è spesso proprio nelle case, e attraverso esse, che l’elemento del perturbante si palesa sottovoce, assumendo un perimetro indefinito. È nell’ambiente domestico che si assiste a un rovesciamento tale da produrre, in chi viene intrappolato nel sortilegio delle sue pagine, un vero e proprio straniamento. Un’alterazione della percezione del reale. Le arti domestiche, al pari di quelle nere, esprimono l’ambizione, il tentativo e, nel suo caso, persino il concreto potere, di dominare l’ambiente e la realtà stessa. È tra le mura domestiche, nella cura della casa e della famiglia che, come la maggior parte delle donne degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, Shirley Jackson trascorre la maggior parte del proprio tempo. Ed è proprio quel tipico immaginario domestico americano che riesce a stravolgere e a piegare in qualcosa che sfugge alla logica e alla razionalità generando inquietudine.


L’incipit de L’incubo di Hill House resta, probabilmente, uno dei migliori mai scritti.
Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.
Shirley Jackson e l’incubo dell’interruzione
Molto è stato scritto e si è detto sul rapporto complicato di Shirley Jackson con la madre anaffettiva. Sul suo matrimonio infelice, sull’ambiente intellettuale che le gravitava attorno senza però mai permetterle di uscire dal tinello. Sulla sua solitudine, sull’abuso di cibo e di farmaci, sulla sua fisicità ingombrante, persino sulla sua morte. E questo forse perché, se è vero che la vita che in parte ci tocca in sorte e in parte scegliamo, si insinua nel nostro modo di immaginare e di creare, influenzandoli fortemente, lo è altrettanto che un talento così inafferrabile e raffinato rappresenti una materia rara e preziosa, molto complessa da indagare.
Lo stile di Shirley Jackson
Più interessante è mettere da parte per un attimo la narrazione biografica e affrancarsi anche dall’analisi dello stile. L’immaginazione selvaggia e la vivace ironia erano capaci di condire in modo insolito e perfetto il perturbante di cui sono intrise le sue pagine.
Che il lettore si smarrisca fa parte del suo abile gioco. E forse rappresenta persino la volontà di prendersi una rivincita su quello che sembra ossessionarla da sempre: l’interruzione. Non solo quella che ne minaccia la dedizione alla scrittura, riportandola ogni volta alla miseria della realtà.
Anche quella incarnata nello stesso lettore, che irrompe in una casa infrangendone l’equilibrio, alterandone regole e abitudini, mettendo in atto un’invasione che riporta alla mente uno dei formidabili racconti di Julio Cortázar, Casa tomada. Casa occupata. Non si sa di preciso da che cosa, né da chi. Come quelle di Shirley Jackson, che contengono incubi e li rendono manifesti. Case occupate da ambigue presenze, in primo luogo la nostra.
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